giovedì 28 luglio 2011

Attentato in Norvegia di un 'non-pazzo' fascista. Personali riflessioni sul «crociato, cristiano, pronto alla guerra per difendere l’Europa dalla minaccia della dominazione islamica e marxista», Anders Behring Breivik.

Avevo appena iniziato un week-end che nelle mie intenzioni sarebbe dovuto essere di vacanza e relax quando ho sentito per la prima volta di quel che era successo in Norvegia. E, devo essere sincero, la prima notizia, quella di una bomba nella capitale, non mi ha colto tanto di sorpresa.
Il mondo intero è ormai abituato a sentir parlare di attentati dinamitardi alle principali sedi di governo, e anzi, dopo l’11 settembre, gli attentati mi sono sempre sembrati fondamentalmente tutti uguali. Non mi sciocca più sapere che è esplosa o è stata trovata una bomba, in qualsiasi parte del pianeta, ma l’attenzione (di tutti noi) oramai si è sempre concentrata su quanti morti essa ha fatto.
Sapere di una bomba in Pakistan, in Afghanistan, in Cina o in America, non fa più paura; fa paura sapere che una attentato ha provocato ‘molti’ morti, ma il concetto stesso di attentato terroristico sta diventando quasi familiare, abituale.
E anzi, spesso anche sapere che un attentato nel Medio-Oriente ha provocato 50 morti, beh nemmeno questo sta diventando preoccupante.
Come se i morti occidentali fossero diversi da tutti gli altri.
Ore 15.26. Un’autobomba distrugge la sede del tabloid norvegese ‘VG’, investendo anche l’ufficio del primo ministro norvegese, Jens Stoltenberg, e facendo saltare la maggior parte delle finestre dell’edificio.
Fu mio padre a dirmi dell’esplosione a Oslo, la capitale norvegese. Ma guardate, non mi urtò più di tutti gli altri attentati che quotidianamente colpiscono l’intero pianeta.
Pensai (come tutti hanno fatto, sentendo questa notizia) ad un attentato di matrice mussulmana, alla guerra Santa. Mi venne poi in mente l’episodio delle vignette di Maometto, pubblicate proprio da una rivista norvegese qualche anno fa e che all’epoca creò un fortissimo clima di tensione col mondo islamico, e questo pensiero confermò, nella mia testa, la pista mediorientale.
Sempre mio padre mi disse che c’erano stati 10 morti, ma aggiunse anche che la cosa “più grave” era accaduta in un’isola norvegese: ad un campo estivo organizzato dal Partito Laburista Norvegese, dove c’erano ragazzi tra i 14 e i 20 anni, un uomo (tra l’altro un norvegese, smentendo quindi la pista della guerra Santa, o almeno quella intrapresa dai mussulmani), si era finto poliziotto, dicendo di essere arrivato sull’isola (di Utoya) per verificare la loro sicurezza, e aveva radunato i ragazzini che c’erano chiedendo loro di avvicinarsi il più possibile a lui. Poi ha aperto il fuoco.
Questa persona (definirlo ‘uomo’ mi fa incazzare troppo…) ha massacrato ragazzini per un’ora e mezza, finché le munizioni non sono terminate. Almeno 70 ragazzini.
Li ha sparati davanti a lui, altri li ha rincorsi, altri li ha sparati in acqua mentre nuotavano per scappare. E poi ha sparato di nuovo a quelli già morti per terra o dava il colpo di grazia a chi non era ancora morto, o ancora a chi gli supplicava di risparmiarlo.
Forse solo attraverso qualche ricordo di qualche film dell’orrore si riesce ad immaginare una cosa del genere.
Col tempo si è scoperto l’artefice di queste azioni: si chiama Anders Behring Breivik, 32 anni, un fascista norvegese, nazionalista, ideologicamente ariano, in quanto convinto della superiorità della SUA razza, fondamentalista cristiano e prosecutore delle Crociate cristiane, anti-islamico e con la passione per la massoneria. Su internet si descrive come «un crociato, un cristiano pronto alla guerra per difendere l’Europa dalla minaccia della dominazione islamica e marxista» e accusa il Partito Laburista di aver permesso l’invasione in Norvegia degli immigrati. Inoltre sempre su internet parla, in un testo, di un incontro segreto di “Cavalieri Templari”, tenutosi a Londra nell’aprile del 2002, al quale parteciparono nove persone da otto diversi paesi europei.
La sua prima frase all’arresto è stata: “Le mie azioni sono state atroci ma necessarie”.
Io non sono un tipo particolarmente emotivo, ma vi giuro che in quando ho sentito di questa strage sull’isola di Utoya mi è venuto da piangere.
Non riesco affatto ad immaginare che una persona riesca ad organizzare un simile piano, una simile carneficina per scopi puramente politici. Perché gli scopi sono politici!
Questa persona ha acquistato 6 tonnellate di fertilizzanti per costruire un’autobomba da far esplodere davanti all’ufficio del premier; è riuscito a spacciarsi per poliziotto, così da poter accedere tranquillamente al campo estivo dei Giovani Laburisti, e anzi è riuscito a rubare la fiducia dei ragazzi: perché i ragazzi si sono fidati di lui quando hanno visto un poliziotto che diceva loro di raggrupparsi, e del resto lui rappresentava la polizia, era lì per difenderli; si è procurato una mitragliatrice con un numero incredibilmente alto di munizioni, che tra l’altro erano munizioni “dum-dum”, vietate dal codice di guerra e utilizzate solo per la caccia agli elefanti: queste pallottole infatti hanno la caratteristica di espandersi dopo aver centrato l’obiettivo, provocando ferite spaventose. Perché nessuno sarebbe dovuto sopravvivere.
No, non chiamatelo pazzo. Sapete chi può essere chiamato pazzo? Uno che, senza motivo, aggredisce qualcuno in metropolitana. Uno che si mette a sparare senza ragione in piazza o che ammazza dei ragazzini che giocano in un campo sportivo, questo è un pazzo.
Breivik non è un pazzo. E’ un essere che ha deciso di eliminare l’avversario politico con la forza delle armi. E’ un essere che, 80 giorni prima di piazzare l’autobomba in piazza a Oslo, ha ordinato SEI TONNELLATE di fertilizzanti per produrre esplosivo e per eliminare il premier SOCIALDEMOCRATICO. E’ un essere che non ha mostrato pietà nell’assassinare ragazzini d’età non superiore ai 20 anni, colpevoli solo di partecipare ad un campo estivo sotto il nome dei Giovani del Partito Laburista, e in quanto tali oppositori delle sue idee.
Personalmente, non sono assolutamente favorevole alla pena di morte. Certo che in alcune occasioni (come questa) la ragione va a farsi fottere. Però, come ha già detto qualcuno, «il terrore non si può combattere con il terrore».
Mi auguro quantomeno che un soggetto così non esca mai più di prigione (malgrado la giustizia norvegese preveda come pena massima, che è quella per crimini contro l’umanità, 30 anni di reclusione), per il semplice motivo che, essendo un fomentatore d’odio e di una cultura nazista, ariana e anti-multiculturale, è un attivo e costante pericolo per la società.
Voglio terminare l’articolo proponendo delle dichiarazioni (alquanto inquietanti) di due importanti personalità italiane: Vittorio Feltri, noto editorialista nonché ex-direttore del quotidiano Il Giornale, e Mario Borghezio, europarlamentare della Lega Nord.
Vittorio Feltri ha praticamente dichiarato che i ragazzi sono stati incapaci, perché non hanno reagito all’assassino Breivik, e anzi sono stati egoisti, illudendosi di potersi salvare: «Sull’isola si trovavano cir­ca 500 partecipanti a un meeting annuale di laburisti. Un numero considerevole. Se 50 persone, e sull’isola ce n’erano dieci volte tante, si lan­ciano insieme su di lui (Breivik, ndr), alcune di si­curo vengono abbattute, ma solo alcune, e quelle che ri­mangono illese (mettiamo 30 o 40) hanno la possibilità di farlo a pezzi con le nude mani. E’ incredibile come, in deter­minate circostanze, ciascuno pen­si soltanto a salvare se stesso, illudendosi di spuntarla. Varie specie di animali quando attaccano lo fanno in massa e nel­lo stesso modo si comportano quando si difendono. Attenzione però: gli animali istintivamente antepongono l’interesse del bran­co a quello del singolo. Uno per tut­ti, tutti per uno. Evidentemente l’uomo non ha, o forse ha perso nei secoli, l’abitudine e l’attitudi­ne a combattere in favore della co­munità della quale pure fa parte. In lui prevalgono l’egoismo e l’egotismo. Non è più capace di identificarsi con gli altri e di sacrifi­carsi per loro, probabilmente con­vi­nto che loro non si sacrifichereb­bero per lui».
Mario Borghezio, invece, fa ancora meglio e dice che molte delle idee di Breivik sono buone. Alcune addirittura ottime! E la colpa della strage è dell’invasione degli immigrati: «Le posizioni di Breivik sono posizioni sicuramente condivisibili; l’opposizione all’Islam, l’accusa esplicita all’Europa di essersi già arresa prima di combattere, sono cose che pensiamo in molti. Ho paura che questo personaggio, magari in buona fede ma sicuramente esaltato, sia stato strumentalizzato. Direi che sono posizioni che collimano al 100% con molte delle posizioni che sono state espresse da questi movimenti che ormai vincono le elezioni tutte le volte che si vota in Europa. I movimenti che dicono queste cose (le stesse di Breivik, ndr) prendono il 20%, e il 20% di 450 milioni di abitanti in Europa significa che un 100 milioni di persone la pensano così. Sono buone alcune delle idee espresse al netto della violenza, in qualche caso ottime! Il sostenere la necessità di una forte risposta cristiana, anche in termini di Crociata contro questa deriva islamista, terrorista e fondamentalista della religione islamica e questo tentativo di conquista dell’Europa, il progetto di Califfato in Europa, è sacrosanto».
In merito alle sconcertanti dichiarazioni dell’europarlamentare (!!!) Borghezio, la procura di Milano ha aperto un’inchiesta.

Juan

martedì 26 luglio 2011

Dall'arresto di Alfonso Papa al salvataggio di Tedesco, passando per la P4, Totò Cuffaro, Cosentino e Cesaro. Gli insopportabili casi di quando la legge e i fuorilegge sono la stessa persona...

Favorevoli 319. Contrari 293. La Camera approva l’arresto del deputato PdL, Alfonso Papa.
Favorevoli 127. Contrari 151. Astenuti 11. Il Senato non approva l’arresto del senatore PD, Alberto Tedesco.
Papa (PdL) arrestato. Tedesco (PD) salvato.
Alberto Tedesco, a sinistra, e Alfonso Papa
Erano 27 anni che la Camera non decideva per l’arresto di un deputato. L’ultima volta avvenne nel 1984 nei confronti dell’allora deputato missino Massimo Abbatangelo, per violazione delle disposizioni sulle armi, in seguito all’attentato del ‘70 contro la sezione del Pci di Fuorigrotta, a Napoli. L’anno precedente la Camera aveva votato l’autorizzazione all’arresto di Toni Negri chiesta dalla magistratura per reati connessi al terrorismo. Negri, che era stato eletto due mesi prima con i Radicali mentre era in carcere, era però intanto fuggito a Parigi, rientrò poi in Italia nel 1997 e finì di scontare la sua pena.
Prima di Abbatangelo e Negri, soltanto altre due volte la Camera aveva autorizzato l’arresto di un deputato: nel 1976 nei confronti del deputato del Msi Sandro Saccucci, accusato dell’omicidio a Sezze Romano di Luigi Di Rosa, di cospirazione politica e istigazione all’insurrezione armata per il cosiddetto ‘golpe Borghese’ e nel 1955, quando Montecitorio disse di sì all’arresto per l’ex partigiano Francesco Moranino, deputato del Pci, accusato di aver ordinato nel 1944, come comandante partigiano, la fucilazione di cinque altri partigiani ritenuti spie e delle mogli di due di loro.
Nella XI legislatura, quella segnata da Tangentopoli e l’inchiesta Mani pulite, tutte le 28 richieste di arresto dei giudici di Milano erano state respinte. A oggi sono 9 in tutto (7 del PdL e 2 del PD) le richieste di arresto per i parlamentari. Cinque i deputati oggetto del procedimento: Margiotta del PD, Angelucci, Cosentino, Papa e Milanese del PdL. Dodici invece le richieste dei pm per l’uso di intercettazioni in vari processi. Al Senato, invece, le richieste sono quattro: Tedesco del PD, Nespoli e due per Di Girolamo del PdL. Otto le richieste di intercettazioni.
Le votazioni vengono tutte effettuate con scrutinio segreto, e perciò non si può identificare l’identità dei votanti. Ma le dichiarazioni di voto sono emblematiche.
Per il deputato del “Popolo di Mr B”, Papa, si erano espressi contrari all’arresto solo gli esponenti del suo stesso partito e il gruppo dei Responsabili. Favorevoli all’arresto, invece, il Partito Democratico, l’Italia dei Valori, il Terzo Polo e…la Lega. Lega Nord che, dopo un tira e molla durato qualche giorno tra idee di salvataggio e idee di arresto, si convince sull’arresto.
Beh, alla Camera non c’è nulla di sorprendente. Papa si dichiara «innocente»; il PdL difende il suo pupillo, sul quale pendeva una richiesta d’arresto per le indagini sulla loggia massonica P4, mentre le opposizioni (e la Lega) votano in modo contrario: 319 a 293, è arresto.
Al Senato, invece, lo sbalorditivo c’è. Si discute, come ho già detto, l’arresto del senatore del Partito Democratico, Tedesco. Lo stesso Tedesco (che per esattezza di cronaca dovrei definire ex-PD, poiché dimessosi e aderente al Gruppo Misto, al Senato), si dichiara anch’egli (come Papa) «estraneo ai fatti», ma decide di votare a favore del suo stesso arresto, e di difendersi quindi in tribunale: «La sede naturale per dimostrare la mia estraneità ai fatti contestatimi è la sede del processo». Tedesco e il suo (ex) partito, il PD, votano a favore dell’arresto, assieme all’Italia dei Valori, il Terzo Polo e la Lega. Il PdL vota contro l’arresto del senatore PD. 127 a 151. Tedesco è graziato.
Ed è proprio al Senato che il Partito Democratico accusa la Lega di aver approfittato del voto segreto per votare (assieme ai compagni di governo del PdL) contro la richiesta d’arresto di Tedesco, per poi far ricadere le colpe sullo stesso PD.
Resta comunque il fatto che la politica è inquinata. Inquinata di processi, indagini, sospetti, corruzione, tangenti, mafia.
Luigi Bisignani
Al di là di questi due specifici casi (di cui personalmente spero che il senatore Tedesco, coerentemente col suo indirizzo di voto, si dimetta quanto prima dal suo incarico e si difenda solo ed esclusivamente in un’aula di tribunale), lo spettro di una nuova Tangentopoli è alle porte. L’arresto di Papa, e quindi l’intera inchiesta P4, sembra aver disegnato un ponte verso realtà ancora nascoste: i procedimenti avanzano con le indagini su Luigi Bisignani e Marco Milanese, ma anche la Guardia di Finanza appare coinvolta nella vicenda P4, dato che il Capo di Stato Maggiore, Michele Adinolfi, ha ricevuto un avviso di garanzia ed è indagato per favoreggiamento e rivelazione del segreto d’ufficio. I pm di Napoli accusano Adinolfi di aver avvertito Bisignani del fatto che il faccendiere era intercettato. Anche un altro generale della GdF è coinvolto: si tratta di Vito Bardi, indagato anch’egli per favoreggiamento e rivelazione del segreto di ufficio.
Insomma, l’inchiesta P4 può creare un boato immenso, ma non è certamente l’unica cosa illecita cui è abituato lo Stato.
Il Ministro per le politiche agricole,
Saverio Romano
Oltre ai più noti casi di Mr B o di Marcello dell’Utri, possiamo ricordare che l’attuale Ministro per le Politiche Agricole, Francesco Saverio Romano, è stato rinviato a giudizio proprio nel luglio di quest’anno per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione poiché «nella sua veste di esponente politico di spicco avrebbe consapevolmente e fattivamente contribuito al sostegno ed al rafforzamento dell’associazione mafiosa». Inoltre, quando, nel febbraio di quest’anno, Totò Cuffaro (senatore dell’UdC) fu condannato per favoreggiamento aggravato nei confronti di Cosa Nostra, Saverio Romano viene coinvolto in merito ad un incontro tra lo stesso Romano e Cuffaro con il boss Angelo Siino, soprannominato “il ministro dei Lavori pubblici di Cosa Nostra”, per chiederne il sostegno elettorale in occasione delle elezioni regionali siciliane del 1991.
Salvatore, detto Totò, Cuffaro
Il già citato Totò Cuffaro è stato Presidente della Regione Sicilia e senatore dell’UdC.
Il 18 gennaio 2008 viene dichiarato colpevole di favoreggiamento semplice nel processo di primo grado per le ‘talpe’ alla Dda di Palermo. La sentenza di primo grado condanna Cuffaro a 5 anni di reclusione nonché all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Il 23 gennaio 2010 la Corte d’Appello di Palermo condanna Cuffaro a sette anni di reclusione per favoreggiamento aggravato nel processo ‘talpe’ alla Dda. Rispetto alla sentenza di primo grado la pena è stata inasprita di ulteriori due anni, con l’aggravante di aver favorito Cosa Nostra. Dopo la sentenza Cuffaro ha annunciato di lasciare ogni incarico di partito e di voler ricorrere alla Corte di Cassazione. Il 22 Gennaio 2011, la Corte di Cassazione conferma in via definitiva la condanna a 7 anni di reclusione inflittagli l’anno prima dalla corte d’appello di Palermo, nonostante la richiesta di eliminazione dell’aggravante mafiosa da parte del procuratore generale. Il giorno stesso Cuffaro si costituisce e viene rinchiuso nel carcere romano di Rebibbia. Il successivo 2 febbraio il Senato della Repubblica accoglie le sue dimissioni da parlamentare con 230 voti favorevoli, 25 contrari e 17 astenuti. Nelle motivazioni della sentenza i Giudici della Cassazione dichiarano provato “l’accordo politico-mafioso tra il capo-mandamento Giuseppe Guttadauro e l’uomo politico Salvatore Cuffaro, e la consapevolezza di quest’ultimo di agevolare l’associazione mafiosa, inserendo nella lista elettorale per le elezioni siciliane del 2001 persone gradite ai boss e rivelando, in più occasioni, a personaggi mafiosi l’esistenza di indagini in corso nei loro confronti”.
E voglio permettermi di segnalare una nota: Totò Cuffaro è lo stesso che nel 1991, durante una puntata di Samarcanda (se non erro) condotta da Maurizio Costanzo, accusò il giudice Giovanni Falcone (presente alla serata) di «appoggiare un giornalismo mafioso che costruisce un’immagine falsa della Sicilia, attraverso accuse infamanti!». Il video della serata è visibile qui sotto. Buona visione...

Denis Verdini è un altro noto esponente del clan “Popolo di Mr B”. Nel febbraio 2010 è stato indagato dalla Procura di Firenze per il reato di concorso in corruzione, riguardo ad alcune irregolarità a lui imputabili su alcuni appalti a Firenze e a La Maddalena, sede in cui si sarebbe dovuto tenere il G8 (poi spostato a L’Aquila). Nel maggio 2010 è indagato dalla Procura di Roma in un’inchiesta su un presunto comitato d’affari, la cosiddetta “cricca”, che avrebbe gestito degli appalti pubblici in maniera illecita.
Denis Verdini
Nel luglio 2010 vennero arrestati l’imprenditore Flavio Carboni, coinvolto a Roma in un’inchiesta che puntava a scoperchiare una cupola che avrebbe avuto interesse nella gestione degli appalti sull’energia eolica in Sardegna (che vede indagato anche il governatore PDL della Sardegna Ugo Cappellacci), insieme a Pasquale Lombardi, geometra ed ex esponente della Democrazia Cristiana e all’imprenditore Arcangelo Martino, ex assessore comunale di Napoli. Queste persone vennero accusate dalla Procura di Roma di aver esercitato presunte forzature sui giudici della Corte Costituzionale al fine di favorire il giudizio di legittimità costituzionale sul Lodo Alfano, di aver sostenuto la riammissione della lista civica regionale “Per la Lombardia”, collegata al candidato di centrodestra alle elezioni regionali del 2010 e successivamente eletto governatore della regione Lombardia Roberto Formigoni e, infine, di aver favorito la nomina a presidente della Corte d’Appello di Milano al pm Alfonso Marra.
Dall’inchiesta è emerso che il 23 settembre 2009 avrebbe avuto luogo un incontro presso l’abitazione di Denis Verdini, a cui avrebbero preso parte l’imprenditore Flavio Carboni, il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri e il sottosegretario alla Giustizia, Giacomo Caliendo, i magistrati Antonio Martone e Arcibaldo Miller, oltre ad Arcangelo Martino e Raffaele Lombardi. In questa riunione si sarebbe delineata la strategia di persuasioni indebite da adottare sui giudici della Consulta intorno all’approvazione del lodo che, il 7 ottobre 2009, verrà poi bocciato perché ritenuto incostituzionale.
Poi abbiamo due compaesani (e finisco qui non tanto per la noia di proseguire o la carenza di materiale, quanto per il dovere di preparare alcuni esami). Nicola Cosentino e Luigi Cesaro, sempre il orbita Mr B.
Partiamo dal primo: Cosentino, coordinatore regionale del Popolo di Mr B.
Nicola Cosentino
Le prime accuse di collusione con la camorra arrivano dopo la pubblicazione su L’Espresso di una dichiarazione del boss pentito Carmine Schiavone, che confermerebbe un patto elettorale siglato con Cosentino. Tali affermazioni, però, sono state successivamente giudicate false dal pm Raffaele Cantone.
Nel settembre 2008 venne pubblicamente accusato di aver avuto un ruolo di primo piano nell’ambito del riciclaggio abusivo di rifiuti tossici attraverso la società per lo smaltimento dei rifiuti Eco4, come emerse dalle rivelazioni di Gaetano Vassallo, un imprenditore reo confesso di aver smaltito abusivamente rifiuti tossici in Campania attraverso la corruzione di politici e funzionari.
Nel novembre 2009, dai magistrati inquirenti fu inviata alla Camera dei deputati una richiesta di autorizzazione a procedere per l’esecuzione della custodia cautelare per il reato di concorso esterno in associazione camorristica.
Il testo del mandato di arresto riportava le seguenti motivazioni: «Cosentino contribuiva con continuità e stabilità, sin dagli anni ‘90, a rafforzare vertici e attività del gruppo camorrista che faceva capo alle famiglie Bidognetti e Schiavone, dal quale sodalizio riceveva puntuale sostegno elettorale [...] creando e co-gestendo monopoli d’impresa in attività controllate dalle famiglie mafiose, quali l’Eco4 spa, e nella quale Cosentino esercitava il reale potere direttivo e di gestione, consentendo lo stabile reimpiego dei proventi illeciti, sfruttando dette attività di impresa per scopi elettorali».
Tuttavia la richiesta fu respinta dalla Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera.
A fine 2009 un pentito di camorra, Luigi Guida,  rilascia dichiarazioni ai magistrati in merito alla gestione della società Eco4. Guida rivela lo stretto rapporto e la corresponsabilità nello smaltimento abusivo di rifiuti tra Cosentino e i fratelli Sergio e Michele Orsi, collusi con la Camorra (il primo fu arrestato per associazione a delinquere, il secondo fu assassinato nel 2008 per aver denunciato dei camorristi).
Il 28 gennaio 2010 la Corte di Cassazione confermò le misure cautelari a carico di Cosentino. Il 19 febbraio la richiesta di dimissioni dagli incarichi fu respinta da Silvio Berlusconi, e Cosentino ha mantenuto il ruolo di coordinatore regionale del partito in Campania.
Il 22 settembre 2010 la Camera dei Deputati ha negato, con scrutinio segreto, l’autorizzazione all’uso delle intercettazioni telefoniche di Cosentino, richiesta dai pm di Napoli.
Luigi Cesaro (a destra) in compagnia di Mr B
Il secondo: Cesaro, Presidente della Provincia di Napoli.
Nel 1984 Cesaro (per gli amici, “Giggin ‘a  purpett”), è stato arrestato nell’ambito di un blitz contro la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo.
Cesaro fu condannato nel 1985 dal Tribunale di Napoli a 5 anni di reclusione, per aver stretto amicizia con tutti i grossi esponenti dell’organizzazione mafiosa, fornendo mezzi, abitazioni per favorire la latitanza di alcuni membri e dazioni di danaro. Il verdetto fu ribaltato in sede d’appello nell’aprile 1986, quando Cesaro venne assolto per insufficienza di prove; decisione confermata dalla Corte di Cassazione per non aver commesso il fatto.
Un aneddoto, descritto in aula dallo stesso Cesaro, conferma i suoi stretti rapporti con i vertici della Nuova Camorra Organizzata, incluso Raffaele Cutolo: ha raccontato di una “raccomandazione” chiesta a Rosetta Cutolo, sorella del boss, per far cessare le richieste estorsive di Pasquale Scotti, personaggio tuttora ricercato ed inserito nell’elenco dei trenta latitanti più pericolosi d’Italia…
Nel 1988, all’epoca assessore al bilancio del comune di Sant’Antimo, sfuggì all’arresto a seguito di indagini della magistratura, in merito a truffe ai danni dello Stato perpetrate dalla giunta comunale in accordo con le consorterie criminali locali.
Nel 1991, a seguito dello scioglimento del Comune di Sant’Antimo per infiltrazioni di stampo camorristico, si accertarono coinvolgimenti di Luigi Cesaro, unitamente ai fratelli Aniello e Raffaele.
In una nota dei Carabinieri di Napoli del 27 ottobre 1991 si legge che «Cesaro Luigi, nato a Sant’Antimio, avvocato non praticante, assessore alla provincia di Napoli eletto nelle liste del PSI, (…) risulta di cattiva condotta morale e civile (…) In pubblico gode di scarsa stima e considerazione. E’ solito associarsi a pregiudicati di spicco della malavita organizzata operante a Sant’Antimo e dintorni».
Nel settembre 2008, il collaboratore di giustizia Gaetano Vassallo indica in Luigi Cesaro “un fiduciario del clan Bidognetti”, nell’ambito del maxi-processo per lo scandalo dei rifiuti in Campania, ed afferma inoltre: “Mi spiegarono che Luigi Cesaro doveva iniziare i lavori presso la Texas di Aversa e che in quell’occasione si era quantificata la mazzetta che il Cesaro doveva pagare al clan. Inoltre gli stessi avevano parlato con il Cesaro per la spartizione degli utili e dei capannoni che si dovevano costruire a Lusciano attraverso la ditta del Cesaro sponsorizzata dal clan Bidognetti”. In un’intervista rilasciata al quotidiano Il Giornale, Cesaro afferma la sua estraneità ai fatti contestatigli nelle indagini sugli intrecci tra camorra e amministrazioni nell’affare rifiuti.
Il 13 luglio 2011, i quotidiani Il Mattino e Il Messaggero riportano la notizia secondo la quale Cesaro sarebbe indagato per camorra dalla Procura di Napoli.

Nel ricordare quanti parlamentari o politici vari hanno guai seri con la giustizia italiana, mi fermo qui. Per ora...

Juan

10 anni fa, l'omicidio Carlo Giuliani e la «macelleria messicana» della scuola Diaz e di Bolzaneto.

I giorni 19, 20 e 21 Luglio 2001 passarono alla storia in riferimento agli episodi di brutale violenza in occasione della riunione del G8 svoltasi a Genova.
Durante la riunione dei capi di governo dei maggiori paesi industrializzati, i movimenti no-global e le associazioni pacifiste diedero vita a manifestazioni di dissenso, seguite da gravi tumulti di piazza, con scontri tra forze dell’ordine e manifestanti dove, durante uno di questi, trovò la morte il manifestante Carlo Giuliani.
Si trattò di giorni da guerra civile, durante i quali, a farne da protagonisti furono in particolar modo i black bloc e la loro violenza anarchica e senza colore, le difficoltà delle forze dell’ordine nell’opporsi alle violenze e il loro atteggiamento vendicativo a discapito di studenti pacifisti e giornalisti internazionali.

ATTO PRIMO. L’OMICIDIO DI CARLO GIULIANI A PIAZZA ALIMONDA
Carlo Giuliani
Il primo giorno, il 19 luglio, si svolse una manifestazione di rivendicazione dei diritti degli extracomunitari e degli immigrati a cui parteciparono moltissimi gruppi stranieri, cittadini genovesi, rappresentanti della Rete Lilliput ed anche un piccolo gruppo di anarchici. Ma non si verificarono incidenti. L’anarchia totale e lo stato confusionale delle forze dell’ordine si notò il secondo giorno, durante il quale i cortei aumentarono, e naturalmente aumentava anche il numero dei manifestanti e dei black bloc infiltratisi.
Nel primo pomeriggio avvennero i primi incidenti. Alcuni black bloc attaccarono con lanci di bottiglie molotov e sassi un cordone formato da carabinieri, allontanandosi velocemente a seguito della carica intervenuta immediatamente dopo, convergendo tra la folla dei manifestanti pacifici; durante questi scontri furono lanciati lacrimogeni e furono esplosi alcuni colpi di arma da fuoco in aria. Diversi filmati amatoriali e televisivi, inoltre, mostrarono contatti violenti tra manifestanti violenti e pacifici (con l’intenzione, da parte di quelli pacifici, di preservare lo svolgimento ordinato della manifestazione), ma anche dialoghi tra individui a volto coperto e abbigliamento scuro (tipico dei black bloc), e poliziotti, carabinieri ed agenti dei servizi di sicurezza, anche all’interno del perimetro delle caserme
Parte di questi manifestanti violenti poi si dirige verso il carcere, dove, adottando la tecnica del black bloc, danneggia le telecamere di sorveglianza esterne ed il portone. Diversi filmati diffusi dopo gli eventi mostrarono l’arrivo dei manifestanti ed il contemporaneo allontanamento delle forze dell’ordine presenti: 4 blindati e 2 defender dei carabinieri, una volante della polizia e due auto della polizia municipale.
Il personale presente sul piazzale antistante il carcere fornirà una ricostruzione dei fatti discordante rispetto a quanto dichiarato dal personale del carcere e da quanto mostrato da alcune riprese amatoriali (acquisite dalla magistratura). Secondo i primi, circa 100 manifestanti, armati di spranghe e lanciando diverse molotov, sassi e bottiglie di vetro, avrebbero attaccato le forze dell’ordine; a questi se ne sarebbero aggiunti in seguito altri 200, che avrebbero tentato di accerchiare i mezzi nonostante il lancio di lacrimogeni, costringendoli alla fuga. Nei filmati, invece, si vede un gruppo di alcune decine di manifestanti violenti, che si avvicina al piazzale antistante il carcere lanciando alcuni oggetti, e i mezzi dei carabinieri che, con il gruppo ancora a distanza, si ritirano dopo aver lanciato solo due lacrimogeni (uno dei quali finito lontano dai manifestanti) e solo a questo punto, a piazzale vuoto, giungono altre persone provenienti dal gruppo principale.
Contemporaneamente un altro gruppo di manifestanti violenti era impegnato da alcune ore a compiere vandalismi contro un distributore, un supermercato ed una banca, ma la polizia, benché sollecitata, non intervenne, poiché l’ordine era di limitarsi a passare le segnalazioni alla centrale.
Nello stesso momento circa 300 carabinieri a piedi, appoggiati da blindati e camionette che, a causa degli attacchi, trovano grosse difficoltà a muoversi nelle strette vie genovesi, si diressero verso la zona dei disordini, allo scopo di bloccare i gruppi estremisti. Tuttavia, causa di un errore di direzione, dovuto alla non conoscenza della città, i carabinieri caricarono per alcune centinaia di metri la testa del corteo autorizzato (tra i primi il gruppo delle “Tute Bianche”) che stava sopraggiungendo, ufficialmente per liberare la strada e per contrastare il fitto lancio di oggetti di cui erano bersaglio.
Appunto questa nota ufficiale «fitto lancio di sassi proveniente dal corteo» è però smentita da alcune intercettazioni, emerse anche durante il processo, provenienti dalla Questura: in una di queste registrazioni si sentono sia un operatore urlare: “Nooo!... Hanno caricato le tute bianche, porco giuda! Loro dovevano andare in piazza Giusti, non verso Tolemaide... Hanno caricato le tute bianche che dovevano arrivare a piazza Verdi
Molti manifestanti ed alcuni giornalisti si allontanarono dopo i primi lanci di lacrimogeni, nel tentativo di cercare riparo nelle strade laterali, ma nonostante ciò alcuni di essi non riuscirono ad evitare di essere coinvolti negli scontri e di subire il pestaggio da parte delle forze dell’ordine. Il capitano dei Carabinieri che aveva ordinato le cariche sostenne al processo che si trattava di cariche «di alleggerimento», ammettendo però di non conoscere la topografia della zona e di non essersi reso conto che così facendo aveva chiuso le vie di fuga.
Dopo questa prima carica i carabinieri iniziarono a ripiegare per permettere il passaggio del corteo, tuttavia alcuni manifestanti appartenenti al corteo, reagirono assalendo e dando fuoco ad un mezzo blindato in panne. In quel frangente la centrale operativa perse i contatti radio con gli uomini presenti, i quali, avendo già impiegato tutti i lacrimogeni a disposizione, ripresero le cariche. Durante gli scontri che seguirono, vennero rovesciati e dati alle fiamme cassonetti dell’immondizia, allo scopo di farne barricate, e furono compiuti altri atti vandalici, ed è da rilevare che la grande quantità di lacrimogeni lanciati causò negli anni successivi problemi respiratori cronici e dermatologici sia negli agenti, nonostante la protezione delle maschere, che nei manifestanti.
Poco dopo le 17.00, la Compagnia di contenimento e intervento risolutivo (CCIR) Echo dei Carabinieri, sotto il comando del capitano Claudio Cappello e con la direzione del vicequestore aggiunto Adriano Lauro, seguita da due Land Rover Defender, caricò parte dei manifestanti che erano nell’incrocio con via Tolemaide, dove stavano avvenendo gli scontri, protetti da barricate improvvisate. Secondo la versione ufficiale la carica era stata effettuata per timore che i manifestanti, che avrebbero iniziato ad avanzare facendosi scudo con alcuni cassonetti rovesciati, attaccassero il gruppo delle forze dell’ordine ma secondo le ricostruzioni basate su numerose fotografie della piazza e testimonianze, effettuate da comitati e associazioni vicine ai manifestanti, i carabinieri si sarebbero preparati a caricare senza che ci fosse stato alcun segno di ostilità da parte dei manifestanti, ed è da rilevare che in alcune foto, relative alla costruzione della barricata, compare Carlo Giuliani.
Durante le inchieste su quei giorni si fece notare che questa carica avrebbe precluso ogni possibile via di fuga ai manifestanti così come avrebbe reso impossibile il retrocedere lungo via Tolemaide verso le cariche delle altre forze dell’ordine; la conseguenza fu che alcuni manifestanti, vistasi preclusa ogni via di fuga, cercarono di reagire alle cariche della polizia per farsi strada nella direzione opposta.
Iniziato lo scontro, i carabinieri, dalle foto e dalle testimonianze, non furono però in grado di disperdere i manifestanti e, davanti alla loro reazione, indietreggiarono precipitosamente inseguiti da questi, dove era schierato un intero reparto della Polizia di Stato dotato di molti mezzi.
Ecco, qualche minuto più tardi, un giovane di 23 anni, Carlo Giuliani, verrà assassinato.
Lascio a Giuliano Giuliani, padre di Carlo, le parole per descrivere gli ultimi minuti di vita di suo figlio:
«20 luglio 2001. Piazza Alimonda. Ore 17.25. I due defender che precedono in retromarcia la fuga precipitosa di una compagnia di carabinieri si ostacolano a vicenda.
Uno si sgancia, l’altro si ferma contro un cassonetto dell’immondizia. Sul retro ci sono quindici o sedici persone, a poca distanza un’intera compagnia di carabinieri che non interviene a difesa della jeep. Tra i manifestanti, uno ha in mano un’asse di legno, tre sono fotografi. Nelle fotografie sembrano tutti vicinissimi, perché ci sono zoom che riducono distanze di diversi metri a poche decine di centimetri. Un manifestante raccoglie da terra un estintore e lo lancia verso il defender. Non produce danni: una pedata lo spinge via e lo fa rotolare a quattro metri di distanza. Carlo è giunto fra gli ultimi dalle parti della jeep, e ha visto la pistola impugnata da tempo, caricata, accompagnata da grida minacciose (“vi ammazzo tutti”). Si china a raccogliere l’estintore: chi lo conosce può solo dedurre la sua intenzione di difendere gli altri e se stesso dalla minaccia. La Beretta calibro 9 spara due colpi in rapida successione. La mano che la impugna è piegata, dicono che così si controlla meglio la direzione del colpo. Braccio e canna dell’arma sono orizzontali, paralleli al suolo.
Nessun calcinaccio che devia il proiettile, come asserisce l’imbroglio dei consulenti avallato dal pm e dal gip. Carlo rotola verso la jeep che ingrana retromarcia, passa due volte sul suo corpo e si allontana in quattro secondi uscendo di scena. Poi, due minuti dopo, un folto cordone cintura la scena, un carabiniere spacca la fronte di Carlo con una pietrata per cercare di mettere in campo un vergognoso tentativo di depistaggio, inscenato da un vice questore che insegue un manifestante, reo soltanto di gridare “assassini” all’indirizzo dei militari (ricordate: “Bastardo, l’hai ucciso tu col tuo sasso”). 
Carlo Giuliani cadde a terra ancora vivo, venendo investito due volte dal mezzo che era riuscito a ripartire e si allontanava dalla piazza mettendo in salvo i carabinieri: una prima volta in retromarcia e la seconda dopo la ripartenza. Secondo l’autopsia, ed in base ai filmati che ne mostrano il sangue zampillante, Carlo morì diversi minuti dopo essere stato colpito. Quando, dopo circa mezz’ora, il personale medico di un’ambulanza arrivò in soccorso, Carlo era già morto, senza aver ricevuto alcun soccorso dalle Forze dell’Ordine.
Un reporter di Repubblica ed un medico, giunti sul posto subito dopo il fatto, notarono il bossolo di un proiettile vicino al corpo ma quando questo venne mostrato ai carabinieri presenti, stando a quanto riportato dalla testimonianza del cronista, questi sembrarono identificare il bossolo come uno di quelli prodotti dal lancio dei gas lacrimogeni, e la morte di Giuliani era ancora ritenuta causata da un sasso lanciato dai manifestanti.
Il cronista raccolse il bossolo e lo consegnò pochi minuti dopo ad un ispettore di polizia sopraggiunto ed avvertito del ritrovamento. Il bossolo verrà identificato poche ore dopo come proveniente dal tipo di pistola in dotazione a Mario Placanica.
Ma la storia del sasso è una montatura forzata quanto infame.
Il defender, scappando, investe il corpo di Carlo due volte. Ci sale letteralmente sopra in retromarcia e in prima, per fuggire. Non potrebbe non accorgersene.
In questa foto si vede Giuliani con ancora il passamontagna
e, alla sua destra, c'è solo il sangue che ancora zampilla


A Carlo Giuliani è stato tolto il passamontagna, ma alla sua
destra è comparso un sasso che prima non c'era

Inoltre le fotografie scattate da un abitante della zona e diffuse nel 2004 mostrano un acceso diverbio tra un carabiniere e un poliziotto e di questo ne aveva parlato in precedenza anche il fotografo Bruno Abile, il quale sostenne di avere visto uno degli agenti presenti (non riuscendo a specificare se si trattasse di un poliziotto o di un carabiniere, forse un ufficiale) dare un calcio alla testa di Giuliani e di essere riuscito a riprendere l’istante precedente a questo. Inoltre qualcuno, mentre la zona attorno al corpo del giovane ucciso era interamente circondata ed occupata dalle forze dell’ordine, avrebbe fracassato il volto di Giuliani scagliandogli sulla fronte, e da distanza ravvicinata, un sasso in modo da far pensare ad una sassata proveniente dai manifestanti; e, a sostegno di questa tesi, alcune fotografie mostrano il sasso prima ad alcuni metri a sinistra dal corpo e poi accanto alla testa sul lato destro, dove prima c’era solo un accendino bianco.
Soltanto nel momento in cui arrivano il vicedirettore di Libero e Toni Capuozzo, viene inscenata “la commedia del sasso”. Il vice questore Lauro prima si attacca al cellulare, poi, saputo di essere ripreso, la commedia parte:
“L’hai ucciso tu, bastardo! L’hai ucciso tu, col tuo sasso! Pezzo di merda! Prendetelo!”. Alcuni componenti delle forze dell’ordine rincorrono il presunto assassino. Se la cavano con una corsetta di alcuni metri. Poi finisce lì. Quello che consideravano un assassino, e che si trovava a pochi metri di distanza, viene lasciato fuggire.
La commedia è ridicola, oltre che infame.
Terzo giorno, Sabato 21 Luglio.
I fatti accaduti il giorno precedente portarono a diverse richieste di annullamento della manifestazione dell’indomani che furono tuttavia respinte dai vertici del Genoa Social Forum. Analogamente a quanto avvenuto il giorno precedente, inoltre, anche il sabato si inserirono tra i manifestanti pacifici gruppetti di manifestanti violenti, che si resero protagonisti di scontri, incendi e distruzioni di auto, banche e negozi.
I primi disordini iniziarono la mattina, quando un gruppo di alcune decine di manifestanti (molti dei quali, secondo le testimonianze dei residenti, vestiti di nero) iniziò a distruggere auto e vetrine ed assalendo un chiosco. Sempre secondo le medesime testimonianze anche in questa occasione furono fatte numerose telefonate al 113, senza che però intervenissero né le vicine forze dell’ordine né eventuali volanti della polizia. Il vicequestore aggiunto Pasquale Guaglione, aggregato presso la questura di Genova durante i giorni della manifestazione, confermò, durante il suo interrogatorio, di aver assistito ad atti di vandalismo e devastazione, oltre al lancio di oggetti contro le forze dell’ordine, da parte di un gruppo di una cinquantina di persone, dalla mattina alle 10.30 per circa 6 ore, ma che solo verso le 15.30-16.00, mentre il corteo stava già transitando, venne ordinata una carica per disperdere i dimostranti violenti.
Il corteo che si stava dirigendo verso il quartiere di Marassi, dove la manifestazione sarebbe terminata, continuò a fluire ma in quel momento si aggiunsero alcuni gruppi di manifestanti vestiti di nero, i quali iniziarono un fitto lascio di oggetti verso la polizia, venne rovesciata un’auto e furono infrante altre vetrine e contemporaneamente vi furono dei tentativi da parte di alcuni dei violenti di reinserirsi all’interno del corteo principale, che furono tuttavia respinti dai relativi servizi d’ordine.
Dopo alcune decine di minuti iniziarono le cariche della polizia con fitto lancio di lacrimogeni, sia verso corso Italia, da cui stava ancora arrivando la coda del corteo, in un punto in cui c’erano poche vie di fuga, ma i gruppi di violenti, sfruttando il caos generale, si allontanarono velocemente e le cariche finirono per colpire, come già accaduto il giorno prima, i partecipanti al corteo pacifico, spezzandolo in due. Il secondo spezzone del corteo pacifico fu costretto di fatto a sciogliersi, mentre le persone che si trovavano nella parte finale del primo spezzone si dispersero, venendo inseguite dalle forze dell’ordine nelle vie del quartiere; molti manifestanti riportarono ferite da trauma e disturbi dovuti all’inalazione dei gas lacrimogeni e diversi abitanti della zona offrirono riparo ai manifestanti negli androni del palazzi, fornendogli anche dell’acqua con cui cercare di placare l’effetto del gas lacrimogeno.
Anche durante questi scontri, come nel giorno precedente, diversi gruppi raccolsero filmati e foto amatoriali che mostrarono persone in borghese o con abiti scuri, parlare con esponenti delle forze dell’ordine e poi tornare nella zona degli scontri.
Gli organizzatori hanno stimato che fossero presenti al corteo circa 250.000/300.000 persone, nonostante molti gruppi avessero rinunciato alla loro presenza dopo gli scontri del giorno precedente.

ATTO SECONDO. L’ASSALTO INGIUSTIFICATO ALLA SCUOLA DIAZ

La scuola Diaz, e l’adiacente scuola Pascoli, in origine erano state concesse dal comune di Genova al Genoa Social Forum come sede, e, in seguito alla pioggia insistente che aveva costretto ad evacuare alcuni campeggi, anche come dormitorio.
Secondo le testimonianze dei manifestanti la zona era divenuta un punto di ritrovo di molti manifestanti, soprattutto tra chi non conosceva la città, e, sempre secondo quanto riferito dai manifestanti e dal personale delle associazioni che avevano sede nella Pascoli, non vi erano particolari situazioni di tensione nei due edifici.
Dopo due giorni di scontri, il bilancio è di 160 persone fermate, ma polizia ora vuole scovare i Black block. Convinti di averne individuato il covo nella Diaz, decisero di «perquisire» gli edifici.
A distanza di 10 anni, però, resta tuttora senza motivazione l’uso della tenuta antisommossa per effettuare una perquisizione…
La versione ufficiale del reparto mobile di Genova fu che l’assalto sarebbe stato motivato da una sassaiola proveniente dalla scuola verso una pattuglia delle forze dell’ordine che transitava in strada alle ore 21.30 circa, anche se in alcune relazioni l’orario fu indicato nelle 22.30. Il vicequestore Massimiliano Di Bernardini inizialmente riferì che il cortile della scuola ed i marciapiedi “erano occupati da un nutrito gruppo, circa 200 persone, molti dei quali indossavano capi di abbigliamento di color nero, simile a quello tipicamente usato dai gruppi definiti Black bloc” e che questi avevano fatto bersaglio i mezzi con “un folto lancio di oggetti e pietre contro il contingente, cercando di assalire le autovetture”, ma successivamente ammise di aver mentito, e di non aver mai assistito direttamente al lancio di oggetti, ma di aver riportato quanto riferitogli da altri.
Successivamente tre agenti sostennero che un grosso sasso aveva sfondato un vetro blindato del loro furgone, un singolo mezzo, rispetto ai quattro dichiarati in un primo tempo, e che il mezzo venne poi portato in un’officina della polizia per le riparazioni; tale episodio tuttavia non risultò dai verbali dei superiori, stilati dopo l’irruzione, che invece riportano di una fitta sassaiola, né fu possibile identificare il mezzo che sarebbe stato coinvolto.
Testimonianze successive di altri agenti sostennero il lancio di un bullone (evento a cui i superiori NON avrebbero assistito) e di una bottiglia di birra, lanciata in direzione di quattro auto della polizia, ad una delle quali si era aggrappato un manifestante.
Alcuni giornalisti ed operatori presenti all’esterno della Pascoli racconteranno invece di aver visto solo una volante della polizia (in coda, insieme ad altre auto, dietro un autobus che sostava in mezzo alla strada per far salire i manifestanti diretti alla stazione ferroviaria) che, giunta all’altezza delle due scuole, accelerò di colpo “sgommando”, ed in quel momento venne lanciata una bottiglia che si infranse a terra a diversi metri di distanza dall’auto ormai lontana; versione confe
rmata in parte da altri testimoni all’interno dell’edificio, i quali affermarono di aver sentito il rumore di una forte accelerata, seguito pochi istanti dopo da alcune urla e dal tonfo di un vetro infranto. Tali versioni, contrastanti in date ed in tempi diversi, hanno posto fortemente in dubbio l’effettivo verificarsi del fatto addotto a motivo dell’irruzione.
All’operazione di polizia hanno preso parte un numero tutt’oggi imprecisato di agenti: la Corte di Appello di Genova, basandosi sulle informazioni fornite durante il processo da Vincenzo Canterini, li stima in circa “346 Poliziotti, oltre a 149 Carabinieri incaricati della cinturazione degli edifici”.
L’arresto in massa senza mandato di cattura venne giustificato in base alla contestazione dell’unico reato della legislazione italiana, esclusa la flagranza, che lo prevede, ovvero il reato di detenzione di armi in ambiente chiuso; dopo la perquisizione le forze dell’ordine mostrarono ai giornalisti gli oggetti rinvenuti, tra cui sbarre metalliche, che si rivelarono provenire dal cantiere per la ristrutturazione della scuola, e 2 bombe molotov, che si scoprì essere state sequestrate il giorno stesso in tutt’altro luogo e portate all’interno dell’edificio dalle stesse forze dell’ordine in modo illegale per creare false prove. Un video dell’emittente locale Primocanale, visionato ad un anno dei fatti, mostrò infatti il sacchetto con le molotov in mano ai funzionari di polizia al di fuori della scuola e la scoperta di questo video porterà alla confessione di un agente, il quale ammise di aver ricevuto l’ordine di portarle davanti alla scuola.
Nella stessa operazione venne perquisita (per errore, stando alle testimonianze dei funzionari durante i processi…) anche l’adiacente scuola Pascoli, che ospitava l’infermeria, il media center ed il servizio legale del Genoa Social Forum, che lamentò la sparizione di alcuni dischi fissi dei computer e di supporti di memoria contenenti materiale sui cortei e sugli scontri, oltre alle testimonianze di molti manifestanti circa i fatti dei giorni precedenti, sia su supporto informatico che cartaceo. Alcuni dei computer che erano stati dati in comodato al Genoa Social Forum dal Comune e dalla Provincia ed alcuni computer portatili dei giornalisti e dei legali presenti vennero distrutti durante la perquisizione.

Tutti gli occupanti furono arrestati e la maggior parte selvaggiamente picchiata, sebbene non avessero opposto alcuna resistenza
; i giornalisti accorsi alla scuola Diaz videro decine di persone portate fuori in barella, uno dei quali rimase in coma per due giorni, ma la portavoce della Questura dichiarò in conferenza stampa che 63 di essi avevano pregresse ferite e contusioni e mostrò il materiale sequestrato ma senza dare risposte agli interrogativi della stampa. Le immagini delle riprese mostrarono muri, pavimenti e termosifoni macchiati di sangue, a nessuno degli arrestati venne comunicato di essere in arresto e dell’eventuale reato contestato, tanto che molti di loro scoprirono solo in ospedale, a volte attraverso i giornali, di essere stati arrestati per associazione a delinquere finalizzata alla devastazione ed al saccheggio, resistenza aggravata e porto d’armi (tutte cose naturalmente infondate!).
Dei 63 feriti tre ebbero la prognosi riservata: la ventottenne studentessa tedesca di archeologia Melanie Jonasch, la quale subì un trauma cranico cerebrale con frattura della rocca petrosa sinistra, ematomi cranici vari, contusioni multiple al dorso, spalla ed arto superiore destro, frattura della mastoide sinistra, ematomi alla schiena ed alle natiche; il tedesco Karl Wolfgang Baro, trauma cranico con emorragia venosa, ed il giornalista inglese Mark Covell, mano sinistra e 8 costole fratturate, perforazione del polmone, trauma emitorace, spalla ed omero, oltre alla perdita di 16 denti, ed il cui pestaggio, avvenuto a metà strada tra le due scuole, venne ripreso in un video.
Tutti gli arrestati della scuola Diaz e della scuola Pascoli vennero in seguito rilasciati, alcuni la sera stessa, altri nei giorni successivi, e con il tempo caddero tutte le accuse ai manifestanti: i Black bloc, almeno nella scuola Diaz, non c’erano.

ATTO TERZO. IL LAGER DI BOLZANETO.

Le persone fermate ed arrestate durante i giorni della manifestazione furono in gran parte condotte nella caserma di Genova Bolzaneto, che era stata approntata come centro per l’identificazione dei fermati, venendo poi trasferite in diverse carceri italiane; secondo il rapporto dell’ispettore Montanaro, frutto di un’indagine effettuata pochi giorni dopo il vertice, nei giorni della manifestazione, transitarono per la caserma 240 persone, di cui 184 in stato di arresto, 5 in stato di fermo e 14 denunciate in stato di libertà, ma secondo altre testimonianze di agenti gli arresti e le semplici identificazioni furono molte di più, ossia quasi 500.
In numerosi casi i fermati accusarono il personale delle forze dell’ordine di violenze fisiche e psicologiche, e di mancato rispetto dei diritti legali degli imputati quali l’impossibilità di essere assistiti da un legale o di informare qualcuno del proprio stato di detenzione. Gli arrestati raccontarono di essere stati costretti a stare ore e ore in piedi, con le mani alzate, a fare la posizione del cigno e della ballerina; abbaiare; impossibilitati ad andare persino in bagno, cambiare posizione o ricevere cure mediche; colpiti con schiaffi e colpi alla nuca ed anche lo strappo di piercing, anche dalle parti intime. I medici erano consapevoli di quanto stava accadendo ed hanno omesso di intervenire pur potendolo fare ed hanno permesso che quel trattamento inumano e degradante continuasse in infermeria. Gli arrestati riferirono inoltre di un clima di euforia tra le forze dell’ordine per la possibilità di infierire sui manifestanti, e riportarono anche invocazioni a dittatori e ad ideologie dittatoriali di matrice fascista, nazista e razzista, nonché minacce a sfondo sessuale nei confronti di alcune manifestanti.
Un poliziotto, intervistato a Repubblica qualche anno fa, racconta: “Il cancello (di Bolzaneto, ndr) si apriva in continuazione: dai furgoni scendevano quei ragazzi e giù botte. Li hanno fatti stare in piedi contro i muri. Una volta all’interno gli sbattevano la testa contro il muro. A qualcuno hanno pisciato addosso, altri colpi se non cantavano “Faccetta Nera”. Una ragazza vomitava sangue e le kapò dei Gom la stavano a guardare. Alle ragazze le minacciavano di stuprarle con i manganelli…
L’allora ministro della Giustizia Roberto Castelli, che aveva visitato la caserma nelle stesse ore, dichiarò di non essersi accorto di nulla e lo stesso confermò il magistrato antimafia Alfonso Sabella (che durante il vertice ricopriva il ruolo di ispettore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ed era responsabile delle carceri provvisorie di Bolzaneto e San Giuliano). Sabella però fu comunque tra i primi, già la settimana dopo il G8, ad ammettere la possibilità che ci fossero state violenze da parte delle forze dell’ordine contro i manifestanti arrestati, pur escludendo appunto che queste fossero state commesse da parte di quelle che erano a Bolzaneto sotto la sua responsabilità).
I giudici nei giorni successivi scarcerarono tutti i manifestanti per l’insussistenza delle accuse che ne avevano provocato l’arresto.
Il 5 marzo 2010 i giudici d’appello di Genova emisero 44 condanne per i fatti di Bolzaneto e, nonostante l’intervenuta prescrizione, i condannati dovranno risarcire le vittime.
Amnesty International definì la vicenda come «la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale» e sottolineò l’importanza della sentenza, la quale riconobbe che a Bolzaneto vi furono «gravi violazioni dei diritti umani».
Per i fatti della scuola Diaz, 25 dei 27 imputati, tutti appartenenti alla Polizia di Stato, sono stati condannati in appello ad una pena complessiva di 98 anni e 3 mesi di reclusione: il capo della Polizia dell’epoca, Gianni De Gennaro, è stato condannato, sempre in appello, ad un anno e quattro mesi per induzione alla falsa testimonianza; sempre in secondo grado, per i fatti di Bolzaneto, 8 dei 45 imputati, medici e membri delle forze dell’ordine, sono stati condannati ad un totale di 10 anni e 8 mesi; per 36 la condanna è stata il solo risarcimento dei danni, essendo i reati di cui erano accusati prescritti.
Per quel che riguarda i manifestanti, 10 dei 24 imputati per devastazione e saccheggio, sono stati condannati in secondo grado a complessivi 98 anni di reclusione.
Per tutti questi processi pende il ricorso in Cassazione.
La cosa più umiliante, però, è che ci sono persone, condannate e quindi responsabili di questa pagina vergognosa della nostra Repubblica, che nonostante ciò hanno fatto carriera: Spartaco Mortola fu condannato in appello a tre anni e otto mesi per i falsi dei verbali di arresto della scuola Diaz e a un anno e due mesi per l’induzione alla falsa testimonianza del questore di Genova. Mortola è stato promosso a questore di Genova.
Alessandro Perugini che colpì con un calcio in faccia un ragazzo inerme a terra in una scena che fece il giro del mondo è oggi dirigente della polizia ad Alessandria.
Nonostante un ragazzo sia stato ucciso, e altre centinaia abbiano riportato danni fisici e psicologici molto, ma molto seri.

Juan